Tavola rotonda La protezione del territorio storico come azione di sviluppo
Ravello, 30 Ottobre 1999
Nell'ambito della conferenza "Un ambiente più sicuro per uno sviluppo sostenibile. La cooperazione euromediterranea" Napoli
Nel quadro della conferenza internazionale “Un ambiente più sicuro per uno sviluppo sostenibile. La cooperazione euromediterranea”, promossa dall’Istituto internazionale Stop Disasters, con il Comune di Napoli e l’Università Federico II di Napoli, il Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali ha curato la tavola rotonda sul tema “La protezione del territorio storico come azione di sviluppo”, il 30 ottobre 1999, che ha concluso l’evento cominciato a Napoli il 27 ottobre.
Con il sostegno del Consiglio d’Europa, Programma EUR.OPA Risques Majeurs, e della Provincia di Salerno, la tavola rotonda ha visto la partecipazione di esperti, italiani e stranieri, che hanno affrontato il problema del territorio storico e della sua protezione come azione di sviluppo.
Infatti, in genere si pensa che i manufatti antichi siano più fragili, che le tecniche tradizionali di uso e trasformazione del territorio siano ormai superate. Ma i manufatti e le tecniche che sono giunte fino a noi possono essere solo quelle che si sono rivelate efficaci contro i rischi locali. Nei territori esposti regolarmente ai disastri naturali può essere diventato storico solo ciò che si è rivelato compatibile con il contesto ambientale. Nelle zone a rischio deve essersi necessariamente radicata una cultura locale del rischio.
Rispetto agli eventi naturali eccezionali ricorrenti in un dato sito, il territorio storico generato dalla cultura locale del rischio (centri storici, edifici, vecchie strade, sistemazioni del terreno tradizionali, ecc.) era quindi certamente meno vulnerabile del territorio recente (abitazioni, nuove strade, grandi modifiche del suolo, ecc.). Il che non vuol dire che lo sia ancora oggi. Antico o recente che sia, il territorio risulta più o meno vulnerabile a seconda che nella comunità si è mantenuta o non la cultura del rischio e la conoscenza delle tecniche più efficaci per fronteggiarlo.
Va quindi ribaltato il convincimento usuale. Nelle zone a rischio, i manufatti antichi sono i meno vulnerabili, sempre che siano stati mantenuti nelle loro condizioni d'origine. Viceversa, se si è persa la cultura locale del rischio, sono i manufatti recenti ad essere i più vulnerabili. Le immagini dell'alluvione in Piemonte (dove la gente evacuata dalle periferie inondate ha trovato rifugio nelle case del centro storico) o del recente terremoto di Izmit (la foto apparsa su molti giornali, una antica moschea intatta circondata da un mare di macerie di edifici moderni, parla da sola).
Oggi la manutenzione viene considerata come inutile, o troppo costosa, invece la manutenzione continua ed appropriata è il più efficace intervento di "rafforzamento" del territorio a rischio.
I partecipanti al dibattito avviato a Ravello hanno sottolineato che recuperare la "Cultura Locale del Rischio" (CLR) potrebbe non solo rendere amministratori e tecnici più attenti al rispetto delle regole d'uso localmente consolidate, ma li libererebbe dalle domande autolesioniste dei proprietari, li aiuterebbe ad evitare gli interventi di trasformazioni pericolose, a realizzare quelli più adatti alle caratteristiche locali del sistema comunità-territorio, ad avviare la manutenzione programmata del territorio.
Oltretutto, ridurre la vulnerabilità degli edifici e del suolo attraverso il recupero della CLR comporta la valorizzazione delle tecniche tradizionali, richiede interventi fondati sull'uso di risorse locali, utilizza procedimenti ad alta intensità di lavoro. Tali interventi possono risultare meno costosi e permettono di sperimentare nuovi modelli di sviluppo, alternativi rispetto a quelli correnti, che spesso generano incrementi di produzione senza che l'occupazione aumenti, anzi provocando sempre più spesso disoccupazione.
Un programma sistematico di "manutenzione del territorio a rischio" consentirebbe dunque di avviare azioni di sviluppo locale sostenibile.